Dopo il 4 marzo nulla è come prima. E allora che fare?
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:
Abbiamo un paese cambiato nel profondo dove le visioni politiche del ‘900 si sono trasformate o liquefatte. Non essersi accorti del cambiamento d’epoca da parte del PD e di Forza Italia ha avuto come conseguenza quello sconvolgimento prodotto da un lato dal “disagio democratico” e dall’altro dell’emergere del “rancore” che ha spinto molti elettori verso il M5S (titolare del principio della democrazia diretta, seppure attraverso la rete) e verso la Lega (titolare di posizioni securitarie e xenofobe). Il M5S come “partito della Nazione” rivendica la fine delle ideologie (essere “né di destra né di sinistra”) e la nascita di un partito interclassista e intergenerazionale che trova il suo collante nella rabbia verso il vecchio sistema politico, invocando la “democrazia dei cittadini”.
La foto che esce da queste elezioni rimanda ancora una volta ad un’Italia spaccata in due: un nord a guida leghista e un sud a guida pentastellata ma uniti dal comune sentire, sebbene più sfumato nel secondo, verso i migranti e il richiamo alla paura. Il nord si affida ad una prospettiva sovranista, protezionistica e xenofoba che la Lega ben rappresenta. Il sud si affida a quell’eterno assistenzialismo che suppone sia rappresentato dal “reddito di cittadinanza” del M5S.
Lega e M5S danno voce oggi alla piccola borghesia e al nuovo proletariato, un tempo base elettorale di sinistra, mentre il PD si arrocca almeno nelle grandi città nelle zone centrali benestanti e borghesi. Un indagine IPSOS ci dice che il PD è preferito dal 22.5 dei ceti elevati e solo dall’11,3 degli operai (contro il 37% del M5S e il 23,8% della Lega).
E’ sbagliato e anche immorale dire che gli elettori M5S e Lega hanno votato di “pancia”. Quando si assiste a un tale spostamento di voti forse dobbiamo cominciare a chiederci se non era sbagliato il nostro modo di leggere la realtà, forse non siamo riusciti a cogliere i segnali di cambiamento in tempo, forse siamo rimasti prigionieri di una cultura neoliberista che ha finito per corrompere anche le nostre categorie interpretative.
Penso ad esempio al precariato, alla politica dei diritti individuali (unioni civili, DAT), al lavoro visto come una condanna (lavorare oltre 67 anni): non il lavoro per l’uomo ma l’uomo per il lavoro. Oppure a livello globale la Brexit, Trump, Visegrad, i venti di guerra, le migrazioni di interi popoli.
Le scelte degli italiani alle elezioni ci raccontano un paese reale con il quale la sinistra non è più in sintonia, perché non più capace di guidarlo, di proporgli un “racconto italiano”. Ammaliati dalle sirene neoliberiste abbiamo inseguito dei pifferai che camminavano da soli perdendosi man mano pezzi di popolo. Un popolo che abbiamo trasformato in populismo con quella supponenza tipica del borghese che veste di sinistra, che mentre parla di robotica, industria 4.0, di decrescita felice non si accorge che i poveri aumentano e il disagio sociale si trasforma in rabbia. E allora che fare? Superato il momento della propaganda (il Renzi del “mai con gli estremisti e populisti” mettendo insieme M5S e Lega) sarà necessario guardare quegli 11 milioni di voti pentastellati (il 32% dell’elettorato) certamente non tutti estremisti e xenofobi, perché molti di quei voti (circa il 15/20 secondo l’Istituto Cattaneo) sono sicuramente di sinistra. Oggi il M5S si può paragonare a una “DC 2.0” in posizione centrale nello schieramento partitico che riporta in auge la teoria dei “due forni” e se non vogliamo consegnare l’Italia alla destra sovranista e, questa sì, xenofoba di Salvini, una sinistra democratica e attenta al bene dell’Italia che è poi il Bene Comune di tutti noi, una sinistra nella quale, non dimentichiamolo, sono confluite le tre tradizioni storiche del ‘900 (i cattolici democratici, i socialisti non craxiani, i comunisti riformisti) deve “vedere le carte” del M5S su salario, pensioni, precarietà, lavoro, reddito di cittadinanza, gestione del debito pubblico indirizzando la spesa pubblica verso famiglie e imprese, energie rinnovabili, mettendosi intorno a un tavolo e avviando una trattativa (nel ‘900 l’avremmo chiamata “compromesso”) per il bene comune dell’Italia. Abbiamo pagato il prezzo della sconfitta per esserci chiusi nei Palazzi, quando non nei CdA di qualche Banca o “nei caminetti” renziani, e per troppa supponenza non abbiamo capito lo tsunami del voto costituzionale.
E’ un errore quindi demonizzare il voto al M5S, che è anche figlio di una sinistra vista come una elite che vive dentro privilegi e affari (dai vari scandali che hanno coinvolto diversi amministratori pubblici fino a Mafia Capitale).
Il M5S si è presentato come il nuovo, senza una storia, anche se con qualche sbavatura (scontrini e rimborsi), che non ha minimamente intaccato il giudizio elettorale, un movimento senza un reale potere di contrattazione (voto di scambio).
Il voto ci rimanda un’Italia in cui le scelte non dipendono più dalle ideologie novecentesche, ma da divisioni territoriali, in cui stranamente tornano a contare i programmi e sulla base delle proposte che offrono l’elettore da il suo voto (voto di rappresentanza). E sebbene tutta l’informazione ha posto al centro il tema della sicurezza e dei migranti, quello che certamente ha fatto la differenza è il tema del lavoro e del suo costo. Il PD perde perché viene identificato con il precariato, il jobs act, la riforma delle pensioni. La Lega vince al Nord con la proposta di ridurre le tasse e quindi attirare i ceti produttivi del Nord e soprattutto del nordest. Il M5S vince perché propone il reddito di cittadinanza e il Sud sfiancato dalla crisi e dalla disoccupazione giovanile ha risposto in massa (il cappotto siciliano ne è la riprova, tant’è che per quanti voti hanno preso al Senato non hanno canditati da eleggere su base regionale).
Gli elettori che hanno subito 10 anni di crisi economica, di mancanza di lavoro, di precarietà, massacrati da una tassazione che ha superato il 40% si sono quindi polarizzati su queste due forze, punendo il PD perché visto come causa di tanti problemi personali e famigliari e in forma minore Forza Italia perché scottati da promesse fatte nel passato e che poi non si sono realizzate (il milione di posti di lavoro).
Ovviamente le proposte di Lega e M5S sono economicamente inconciliabili per cui Mattarella sarà chiamato a scegliere la forza politica che avrà maggiore possibilità di formare un governo seppure di minoranza, magari chiedendo al PD e a Leu un atto di responsabilità per un appoggio esterno (e forse chissà, nella sua veste “morotea” Di Maio potrebbe ambire anche ad un governo di coalizione per rifare la legge elettorale e ponendo alcuni punti programmatici su cui c’è maggiore consonanza). L’alternativa? Consegnare il Paese alla destra xenofoba e sovranista del Salvini di “prima gli italiani”.
E i cattolici? Non pervenuti. Le liste identitarie sono state un flop. I cattolici ormai sono parte di tutti gli schieramenti e votano non in base alla propria identità cattolica ma in base ad interessi personali.
Roberto Papa