Giuseppina Torregrossa ha presentato il suo ultimo romanzo, “Il basilico di Palazzo Galletti”, a Velletri Libris
Nella serata dell’eclissi di luna, la scrittrice Giuseppina Torregrossa con la sua grande solarità ha letteralmente illuminato la Casa delle Culture e della Musica per il venerdì sera di “Velletri Libris”. Ospite della rassegna ideata e realizzata dalla Mondadori Bookstore Velletri, l’autrice siciliana ha presentato il suo ultimo romanzo, Il basilico di Palazzo Galletti (edito da Mondadori), conquistando il numeroso pubblico accorso nel Chiostro.
La Torregrossa ha esordito lodando l’organizzazione veliterna, “densa e piena di effetti speciali”, per poi partire dal titolo per ragionare della sua opera. “Il basilico per noi donne del Sud è qualcosa che si può usare ovunque. Il libro vede la protagonista usarne in grandi quantità, ma non è solo un ingrediente, bensì un indizio poiché queste piante verdi che ornano i balconi sono utili anche alle indagini del giallo”.
Il romanzo della Torregrossa, infatti, è un misterioso caso di cronaca che viene affidato ad una giovane commissaria, alle prese con una serie di fitte contraddizioni da svelare. Scenario particolare della narrazione è Palazzo Galletti, un edificio realmente presente a Palermo, storico e in stile neogotico, oggi utilizzato come sede di uffici ma un tempo tempio della malavita e dei senzatetto.
Il difficile recupero, “a macchia di leopardo”, per l’usura e per il vandalismo, hanno consegnato a questo Palazzo un alone di fascino non indifferente. La vera protagonista del libro, però, è la città di Palermo stessa: “Non è uno scenario” – ha specificato l’autrice – “ma occupa la scena del mio immaginario. Non riesco a farne a meno, è una città in cui si muovono le anime dei personaggi che la vivono e la interpretano”. Sullo sfondo del plot c’è il Ferragosto, giorno in cui avviene la morte di Giulia Arcuri.
Una festività vissuta, nel profondo Sud, con uno spirito dionisiaco che abbina la grossolanità alla spiritualità. Le liti con Santa Rosalia per la mancanza dell’acqua, il pentimento e le richieste di scuse porte alla santa stessa: questi costumi non sono esagerazioni o fantasie, ma parte integrante della quotidianità siciliana. La commissaria, di fronte alla morte di una ragazza, tira fuori oltre alle sue competenze investigative anche il lato umano: “Le donne sono spesso infelici” – ha detto la Torregrossa – “e come diceva la Ginzburg attingono all’enorme pozzo di infelicità. La mia protagonista non fa eccezione: ha una vita privata non appagante, un fidanzato burbero di cui non riesce a fare a meno, sente il peso di una società che al Sud è strutturata per la famiglia. Lei non è tagliata per fare dei figli, e non trova la sua strada, pur cercando di adattarsi. Il delitto è uno specchio anche per sé, poiché nelle indagini trova degli spunti per la sua vita”.
Sui punti in comune tra la poliziotta e la vittima, la Torregrossa ha svelato la presenza di una sorta di proiezione dell’investigatrice sull’assassinata. Una ragazza, Giulia Arcuri, bella e dannata: colpita da giovane da una malattia genetica rara, è frenata da una intolleranza alla luce che la costringe a stare rinchiusa nel suo appartamento e indossare lunghi abiti bianchi. Nonostante ciò ha un candore e una bellezza, con i suoi capelli rosso fuoco, non indifferente.
Un personaggio femminile molto analizzato anche psicologicamente, che fa da contraltare ai protagonisti maschili: un po’ bizzarri, talvolta grotteschi come Sasà, tratti da conoscenza reali della scrittrice. Particolarità de Il basilico di Palazzo Galletti è l’uso del dialetto, tanto da rendere necessario un glossario a fine libro: il siciliano “si usa tra il popolo” – ha detto la Torregrossa, in una digressione letteraria – “e lo abbiamo perso. Avevamo una letteratura dialettale nutrita fino a Pirandello, la nostra è una vera e propria lingua.
Lo spartiacque è stato proprio Pirandello, che nell’invitare a distaccarsi dal dialetto per evitare una letteratura regionalizzata e confinata ha inibito un’intera generazione”. Tale condizione è poi mutata con Andrea Camilleri: “Con Camilleri si è tornato a un siciliano che però è talvolta inventato, lo definirei un ‘camillerese’. Ha avuto il merito, da Maestro quale è, di portare il dialetto fuori dall’isola e nel mondo. Io amo molto la lingua palermitana, lo uso quotidianamente, e rimane per me l’espressione dell’affetto e dell’emotività. Certe cose, come le ‘ninne nanne’, non puoi non cantarle in dialetto”.
Senza andare troppo in profondità nella trama del romanzo, che in quanto giallo presuppone determinate omissioni per lasciare al lettore il gusto della scoperta, la Torregrossa ha risposto ad alcune domande riguardanti la propria esperienza, umana, professionale e artistica. Con ironia e livello, la scrittrice si è soffermata sul tema migranti: “Per me l’errore di fondo è parlare di integrare il diverso. Dobbiamo accoglierlo, è come quando prendiamo marito, non si può integrare o cambiare, l’integrazione vera parte dall’accoglienza”.
E sulle migrazioni ha ricordato la sua esperienza personale: “Non esagero se dico che quando a 14 anni mi dovetti trasferire a Roma, mi sentivo una terrona deportata al Nord. Roma era Nord, il primo trauma fu il raccordo. Mi colpì molto poi il verde che adornava la capitale, così diversa da Palermo che era molto più cementificata. Mi sembrava di essere a Londra. Roma, alla fine degli anni Sessanta, era una città molto chiusa, io parlavo un italiano corretto ma l’accento era forte e mi prendevano in giro, tant’è che smisi di parlare e la prima pagella fu una tragedia”.
Sui suoi primi approcci alla scrittura, la Torregrossa ha raccontato di avere questa passione dall’età di cinque anni. Qualcuno si è accorto di lei, portandola al successo, ma nel frattempo la carriera medica l’ha impegnata come ginecologa. Che differenze ci sono tra questi due mondi, quello ospedaliero/sanitario e quello letterario? “Paradossalmente poche. Nel senso che in entrambi in casi entri nell’intimità della coscienza dell’interlocutore. Per me è una questione di umanità” – ha dichiarato la scrittrice – “perché la malattia oggi viene spesso associata allo stress: è vero, ma lo stress è un termine generico che indica disagio, scontentezza, cattiva qualità di vita. Bisogna far parlare il paziente oltre al sintomo, la terapia va bene ma il segreto del medico è saper entrare nella sfera più profonda se vuole dare risposte più forti. Uno scrittore fa lo stesso, analizza i personaggi nelle sue pieghe interiori. La mia professione mi ha aiutato moltissimo nella scrittura”.
Giuseppina Torregrossa ha dato prova di essere scrittrice vera, non solo per la cultura trapelata dalle sue parole e dallo stile che ha contraddistinto la chiacchierata, ma anche per i ‘trucchi’ che utilizza per scrivere un romanzo: una lavagna piena di post-it, una mappatura delle domande e delle risposte, quasi un metodo scientifico. A fare da bivio alla sua esperienza di vita è stata però la malattia che l’ha colpita: “Mi ha migliorato, è stata la mia grande occasione. Non per scadere nel new age, ma non ci si ammala per caso. Avevo una vita bella ma sospesa, ero fuori di me perché continuamente in fuga e mai dentro me stessa. La malattia ha rappresentato in tal senso un limite innegabile che mi ha fatto capire di dover cambiare approccio, pur continuando a lavorare ma rientrando dentro di me e rinnegando gli automatismi. Avevo fatto” – ha confessato l’autrice – “una brusca accelerata fuori di me, consumando le mie esigenze. Un medico non è detto che non possa essere paziente. Io ho sempre inteso così la mia professione, non come una missione ma come un’attività politica poiché la nostra azione ci deve rendere consapevoli di stare esercitando un potere. Da paziente, ho visto l’altro lato della medaglia”.
Al termine della serata, interrotta da continui applausi spontanei, un lungo firma copie di oltre mezz’ora, un omaggio della serata e poi un degno finale per un incontro intenso e tra i più apprezzati nel colonnato ottocentesco della Casa delle Culture, insieme a Giuseppina Torregrossa, per vedere l’eclissi lunare. Una presentazione davvero indimenticabile per la soddisfazione della squadra di “Velletri Libris”, che adesso si prepara agli ultimi due appuntamenti di agosto con Paolo Genovese (mercoledì 1) e Antonio Dikele Distefano (venerdì 3), entrambi alle ore 21.00 alla Casa delle Culture.
Rocco Della Corte